Pubblicato su politicadomani Num 86 - Dicembre 2008

Sul diritto alla vita
Aborto terapeutico e discriminazione prenatale

L’abuso del termine “terapeutico”,  usato indifferentemente anche al posto di “eugenetico” e “selettivo”, nasconde una incapacità di applicare fino in fondo il principio del diritto alla non discriminazione

di Marta Pietrosi

Strettamente connessa alle riflessioni sull’eutanasia pediatrica è la questione del cosiddetto aborto terapeutico che, grazie alle più innovative tecniche di diagnosi prenatale, è divenuto quanto mai attuale e problematico. A monte di qualsiasi discorso sull’aborto resta la non prescindile questione legata alla necessità di esaminare se già l’embrione umano è vita umana individualizzata oppure no; e, nel caso lo sia, se esistano delle circostanze in cui diventi lecita, eticamente accettabile o addirittura doverosa, la soppressione di quella vita, ovvero l’interruzione volontaria della gravidanza.
Per quanto, come spesso accade nelle discussioni su questo tema, ci si lasci spesso trascinare dal lato emotivo o dai diversi retaggi culturali, ideologici e politici, emerge come non delegabile la domanda se un essere umano, in qualsiasi fase del suo sviluppo, possa essere soppresso, quindi ucciso, perché gravemente malato. La morte volutamente data può essere considerata eticamente una valida alternativa, per esempio, all’alleviare le sofferenze, magari con cure palliative, oppure ad un accompagnamento, seppur sofferto, di quell’essere umano che si riconosce sfortunato fin dalla gravidanza?
Procediamo con ordine. Innanzitutto bisogna dire che la stessa denominazione di terapeutico è in realtà impropria quando riferita all’aborto. Quando infatti si fa riferimento al principio terapeutico, in estrema sintesi, ci si riferisce a quell’intervento medico-chirurgico direttamente rivolto a curare o a togliere  la parte malata di un organismo, di un corpo fisico. L’accezione e l’estensione che si intende dare all’espressione “aborto terapeutico” è, di conseguenza, di notevole rilievo: esso viene infatti proposto come unico mezzo per salvare la vita della madre o come mezzo per salvaguardare la vita della stessa, dove, in questa accezione, si intende sia la vita fisica che quella psicologica.
Nella categoria di “aborto terapeutico” sono inclusi oggi anche quei casi che un tempo venivano indicati con il termine “aborto eugenetico” oppure  “aborto selettivo”. Anche se si sono in parte abbandonate queste definizioni, quello che di fatto accade in questi casi è che si procede all’aborto per impedire la nascita di soggetti malformati, o portatori di handicap più o meno gravi, allo scopo, si sente spesso dire, risparmiare a questi soggetti di imboccare una vita “non umana”, ovvero una vita piena di sofferenze. Una situazione che si ripercuoterebbe, tra l’altro, sia sulla salute psicofisica della madre, sia sulla situazione socioeconomica della famiglia.
Quali che siano le cause delle malformazioni o delle malattie - anche se diagnosticate prima della nascita, e anche se sono di fatto e non per presunzione non curabili - restano alcune gravi questioni:
La presenza di malformazioni anche gravi o di malattie incurabili e di handicap può togliere qualcosa al diritto all’esistenza del nascituro? E, ancora, proprio perché una societàsi qualifica per la sua capacità di aiutare i deboli e i malati, e non già per l’arroganza di voler salvaguardare se stessa provocandone la soppressione precoce, le politiche di sostegno alla vita e alle madri e alle famiglie, non dovrebbero essere altre? E, nel caso dell’aborto selettivo, il fatto che il feto si presenti malformato e portatore di una malattia sia pure grave, non aggrava forse, sul piano oggettivo, l’offesa alla vita e alla dignità umana?
La portata etico-politica e sociale, nonché bio-giuridica di tali questioni è immensa, perché è nella risposta che si dà a queste domande che si fonda e si caratterizza il nostro sistema di valori e la nostra cultura, ovvero la nostra stessa antropologia di riferimento. Non è affatto vero che con l’avanzare della tecnologia e delle scienze ci sia inevitabilmente e contemporaneamente anche un analogo progresso sociale, culturale ed umano. Oggi la sfida culturale mette in gioco valori fondamentali quali il diritto alla non discriminazione per quanto attiene la vita. I progressi della conoscenza sulla origine a la vita nascente ci chiamano alla responsabilità delle decisioni difficili. Perché le scelte che si fanno per “amore” e per “compassione”, in nome di una qualità e di una dignità della vita misurata sui nostri standard personali, sono soltanto le scelte più facili.

 

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